Gino, Partigiano e Capo Stazione

Il giornalista Stefano Rotta ricorda la figura e la vita del borgotarese Gino Caccioli
L'unica volta che vidi Gino Caccioli, è stata anche l'ultima con Lodovico Stefanini. Fu lui a portarci dal vecchio amico ferroviere. Ci teneva tanto che gli dedicassimo una pagina di giornale: «ha tribolato tanto», ripeteva spesso. L'idea di Stefanini era che con le parole, con una manciata di parole scritte (si spera) con testa e cuore, si potesse ripagare tanta gente onesta e silenziosa delle fatiche quotidiane di una vita.

Con Gino se ne va un'altra roccia di quella generazione. Sono nate e nasceranno altre persone buone, ottimiste e anche geniali. Ma loro, i nostri ultimi vecchi, hanno una marcia in più, che si legge dagli occhi e dal parlare poco e adagio: l'aver vissuto e sconfitto mostri, l'aver navigato tempeste, l'aver lavorato fin da piccoli con serietà e costanza, trovando sempre un sorriso per tutti.

Aveva vent’anni, Gino Caccioli, in una vecchia foto in bianco e nero con le bombe a mano sulla cinta. Partigiano Lucio, Prima Brigata Julia, distaccamento Dallara.
Un ragazzo di montagna come tanti, che non è voluto fuggire davanti alla Storia in Valtaro. «Sono salito in montagna per raggiungere alcuni amici e compagni di scuola cha già avevano fatto questa scelta», dice, semplicemente, nel raccontare il suo ingresso nei ribelli, al coincidere con il passaggio nella vita adulta.

Caccioli nacque ad Albareto il 18 gennaio 1925, ma già a undici mesi venne portato con la famiglia a Boceto di Borgotaro, dove rimase a vivere fino ai 22 anni. Racconti nudi e crudi: «I tedeschi ci tenevano sotto tiro con un nido di mitragliatrici, così abbiamo deciso di andare giù a scovarli. Eravamo io e un amico, Nino Di Ia, che fu poi cantoniere. Si stava parlando. Eravamo fra i pochi ad avere in dotazione una mitragliatrice, la Breda 37. Sono stato colpito con un colpo esploso dentro la gamba. Poi le raffiche, ma ero già in terra, non più bersaglio colpibile».
Commenta: «Ci vuole la testa di uno di diciotto anni per fare certe cose. A trenta non le faresti mica più. Per questo la guerra la fanno fare ai ragazzini».

Si misero d’accordo. «Io vado di qui, tu di là». Due ragazzi di vent’anni alle prese con un’azione contro i nazisti. «Li assaltiamo con le bombe a mano», si dissero. Oggi, settant’anni dopo, Gino, uomo serio e compito, occhi lucidi, non crede che tutto ciò sia stato possibile. Nino gli saltò addosso in lacrime. «Le pallottole picchiavano vicino a noi, facevano saltare la terra. Una mi è entrata nel femore sinistro, maciullandomi la gamba». Come Peppino Roscelli, partigiano che ha raccontato recentemente la sua vita per queste pagine, anche Gino Caccioli fu portato all’ospedale militare di Albareto.

Ricorda la battaglia della Manubiola: «Furono trenta ore di fuoco». E poi il Santa Donna, su nelle desolate lande fra Bardi e il Borgo, aiutati dai contadini e dal buon Dio. Non mancò alla liberazione di Borgotaro, l’8 aprile 1945. «Moltissimi poi erano gli attacchi di disturbo». Il comandante era Gino Delnevo, Gomel. «Che uomo. Reduce dalla Russia, con una certa esperienza militare. Un signore. Pensava a noi in ogni attacco, non mandava giovani al macello, si preoccupava ci fosse sempre una via di fuga, una strategia di salvezza.

Comandante vero. Gomel è la città in cui ebbe salva la vita». Sembra incredibile, ma, dice Lucio, «eravamo ventenni spensierati, camminavamo notte e giorno, certe sere sentivamo che si ballava a Bardi e a piedi ci andavamo, quattro o cinque ore di marcia...».
Che amicizie sono nate da quelle ore, legami solidi per tutta la vita. Cosa le ha insegnato la Resistenza? «L’onestà. Si veniva da famiglie che già in quella direzione lì non si scherzava. Noi ragazzi non si vedeva l’ora di fare la Resistenza, sentivamo di attacchi qua e là e ci esaltavamo al solo pensiero».

Come mai antifascista? «Mio padre fu licenziato senza motivo dalla Fnet, fabbrica nazionale di estratti tannici. Mi sono tenuto dentro questo retaggio del fascismo che ci opprimeva. Si maturava fin da piccoli l’idea di essere contro».
Il babbo, Camillo, classe 1898, aveva servito la Patria sul Carso nella Terza Armata. «Era contro la guerra e la dittatura. Ma tutta la popolazione qui era di quel verso lì». Già durante la guerra, il primo marzo 1943, il giovane Caccioli venne assunto alle Ferrovie dello Stato con svariate mansioni: manovale, manovratore, addetto agli scambi, manutentore, pulizia dei gabinetti e tanto altro. Arrivò a fare il capostazione di Borgotaro, sulla Pontremolese, fino alla pensione nel 1975.

Il 25 luglio 1963, un giovedì, cinque carri ferroviari (due di melica alla rinfusa, due di pani di piombo, uno di legname) si sono staccati durante le manovre di scarico in stazione, scivolando a folle velocità incontrollata verso valle, finendo per deragliare a Fornovo, miracolosamente senza danni alle persone. 19 minuti a 130 all’ora. Curve e gallerie. Grazie al subitaneo allarme di Caccioli, un treno in risalita venne bloccato e si evitò il disastro. Molto preoccupato per le responsabilità del fatto, ricevette invece elogi dalla gente e dai superiori per la tempestività di risposta. Un vero capostazione. «Pensavo fosse un sabotaggio, invece si erano rotti dei ganci».

Ha tre figli, Paolo, Maria Grazia, Alessandra. Dell’infanzia ricorda: «Si picconavano i prati per seminare il grano». «Ha tribolato molto», dice di lui Lodovico Stefanini, l’amico partigiano Carbonaro. Da sempre fa parte dell’Anpi Parma, sezione di Borgotaro. Negli anni Settanta Caccioli fu anche segretario del partito socialista a Borgotaro, senza mai incarichi amministrativi. Anzi, con soddisfatta ironia dice: «Mi è stata aumentata la pensione di guerra, da 170 a 210 euro al mese».

Ciao Gino. Buon viaggio.


3 Commenti
  1. Micheleporcari

    Caro Gino che la terra le sia lieve...mi mancheranno i suoi racconti di quando passava ad acquistare il parmigiano,ero affascinato dalle sue parole ma soprattutto colpito dal suo essere Signore.Un abbraccio

  2. Claudio M.

    "Gomel" un luogo tante volte rievocato da mio padre, reduce dalla Russia con la Julia e gli alpini dell'ottavo.
    Guardando il volto d'Uomo di Gino, vedo gli stessi tratti del volto visssuto di quegli alpini che hanno superato tante tribolazioni , da eroi,per uscire dalla ultima sacca, ma non si sono mai considerati tali,quando sono ritornati "A baita".
    Stefano è il cantore e trovatore di qesti eroi per caso e ha dato loro quella dignita' e quell'onore che meritavano e che altri si dimenticavano di dare. Non per nulla, Stefano ha conseguito i premi "Montanelli" e "Biagi", per i giovani giornalisti e per "Gente di provincia".
    Non sapevo che Gino fosse mancato. Quante volte nella vita di pendolare l'ho salutato alla stazione ferroviaria del Borgo : lui che ha fatto viaggiare tanti pendolari abbia ,ora, un buon viaggio e come merita, dopo tante dignitose fatiche.

  3. Luciana

    Hai aperto la Grande Porta. non richiuderla, la scala è lunga ma prima o poi ci si arriva. Un affettuoso arrivederci.

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