La leggenda che nasce sul monte Penna

I due corsi d'acqua, Taro e Ceno, nascono entrambi sul monte Penna, per poi prendere strade diverse
Anche il monte Penna, che si erge maestoso e solenne verso il cielo, coperto di estese foreste e verdi praterie, ha le sue leggende. Su questo monte nascono anche i nostri principali fiumi, il Taro e il Ceno. Da sempre considerati “gemelli”, tant’è che ad avvalorare questo detto popolare ci sono pure diverse leggende, tra cui queste, due bellissime favole raccontate dei Maestri bedoniesi Romeo Musa e Giannino Agazzi.
 
- I due gemelli di Giannino Agazzi  
 
Sul Monte Penna, all’ombra della ciclopica roccia del Pennino, riposavano, in epoca antichissima, due gemelli: il Taro e il Ceno.
Un giorno, stanchi di starsene lassù a rispecchiare la faggeta, decisero di scendere alla scoperta del mondo. Sarebbero partiti di buon mattino e chi, per primo, avesse raggiunto il piano avrebbe dato il nome a tutta la vallata.
Ceno si svegliò che ancora brillava limpida la “Stella del mattino”. Senza destare il fratello che riposava fra il muschio rugiadoso, si disse: “M’avvierò pian piano, Taro mi raggiungerà facilmente”.
Il prima raggio del sole sveglio Taro che, vedendo il fratello avviato, senza riflettere, si precipitò a valle per la strada più lunga. Nonostante questo, però, giunse prima a Fornovo. Quando poco dopo, anche Ceno, aggirando le ultime colline, raggiunse Fornovo, dovette rassegnarsi a confondere le sue acque con quelle del fratello.
Ancor oggi le acque del Taro scendono a valle veloci e spumeggianti, mentre quelle del Ceno placidamente percorrono la strada più breve.
 
- Storia del Penna di Romeo Musa (forma non dialettale)
 
Alla cime della montagna, proprio dove c’è il Pennino, la Regina della neve vestita era di nevischio con la corona di ghiaccioli e sul trono di ghiaccio. Era là da tanti secoli, senza averci mai pensato, senza ridere, senza piangere e con la testa e il cuore di gelo. Quando il vento la accarezzava, neve gelata diventava. Giù in un buco delle “Roccazze”, di un abisso senza fine, viveva il Re del Fuoco, senza legna e zolfanelli. Friggeva senza pace, come fosse in mezzo alla brace. E dal tanto desiderio della bellezza che c’è di fuori, per volerla ben conoscere gli scoppia persino il cuore. Con un muggito fa un gran salto dalla Regina che sta in alto. Incontrandola fa scintille con delle fiamme da far spavento: “Come mai sei così bianca, differente sei da me? Ti voglio bene: non c’è stella che sia di te più bella”. “Fatti in là, non mi toccare che mrire mi faresti; non ti posso mica amare, che anche dovresti per il mio amore seguire a sorte d’incontrare la stessa morte”. “Cosa importa tanto vivere un po’ meno o un po’ di più? Meglio vivere conoscendoti e volersi bene così”.
E la abbraccia col calore della gran vampa dell’amore. Il giorno dopo sulla montagna, la Regina non c’è più: fumarole non ci sono del fuoco, che scomparso è anche lui. Ma a ricordo dei loro regni vi han lasciato vari segni. Ed infatti in crepaccio in un fianco del Pennino si conserva della Regina del gran manto uno straccetto. È il nevaio di una valanga che portava come fiocco. Poi più in basso, detta la Nave, del Pennino ancora c’è una fossa che era la bocca del famoso Re Fuoco che ha sgelato la Regina, Regina che ha smorzato. Dalla montagna sono nati due gemelli, due bambini ed uguali come gocce, da confonderli vicino. Ma ciascuno va per la sua strada e si chiamano Ceno e Taro.


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