58 - 17 Gennaio 2018
I matti di Volterra
Viaggio nell'ex Ospedale Psichiatrico realizzato nell'800 e che arrivò ad ospitare fino a 4800 pazienti
Di “matti” non ne ho visto nemmeno uno, eppure mi è sembrato di “vederli”. Erano tantissimi. Sto parlando dell’ex manicomio di Volterra, in pratica un piccolo paese dentro alla città. Le tante storie che ho ascoltato e i segni indelebili del suo sventurato passato lo fanno sopravvivere ancora oggi, nonostante sia chiuso dal 1975. La decadenza dei padiglioni e lo stato di abbandono di tutta l’area è veramente inquietante. Impossibile non percepire ciò che accadeva là dentro.
L'Ospedale Psichiatrico di Volterra ebbe origine nel 1888, ma fu il notevole ampliamento del 1902 a farlo diventare il manicomio italiano più grande: 4.800 gli internati provenienti da tutta Italia. La struttura cessò la funzione nel 1978, anno in cui la Legge 180 “Basaglia” pose fine all'esistenza dei manicomi. È solo da quel momento che una persona con disturbi è stata considerata prima di tutto un essere umano e non un “matto” o uno “scemo di guerra”, questo il nome affibbiato ai reduci.
Il manicomio è un luogo che non ha colori. Tutto è spento. La stanza bianca era larga 4 passi, con un letto bianco, una sedia bianca, una finestra rettangolare con le sbarre bianche, ovviamente tutto realizzato in ferro. Gli uomini da una parte, le donne dall’altra. Poi ulteriormente separati: quelli puliti e quelli sudici, quelli consegnati all’interno e quelli sconsegnati liberi per il giardino, infine i pericolosi, gli innocui e i criminali.
Gli internati non erano solo malati di mente, ma inviati lì dopo una denuncia per disturbo della quiete pubblica, oltraggio a pubblico ufficiale, uso eccessivo di alcool, donne fatte ricoverate dal marito per tradimento o gelosia, ma anche omosessuali, disabili e “poveri cristi”, spesso indicati all’autorità dal medico del paese dietro segnalazione di un sindaco, prete, maresciallo o farmacista. Molte di queste persone entravano “normali” e uscivano “sceme”.
Tempi scanditi da colazione, pranzo e cena. C’era chi si sedeva sulla panchina da mattina a sera, chi si aggirava trascinando il proprio peso, chi invece grattava i muri con la fibbia della cintura creando vere opere d’arte, Oreste Fernando Nannetti ne è la dimostrazione, altri invece, magari gli abili o i normali, potevano lavorare per la struttura, gratis ovviamente. I casi gravi invece venivano legati al letto, trattati con l’elettroshock o utilizzati per la “scienza”, anche se la destinazione di molti si concludeva a San Finocchi, il “Cimitero dei matti”, come lo chiamano a Volterra.
Ora vi starete chiedendo il motivo della visita a questo luogo infausto, plausibile domanda, vi posso perciò dire che quel giorno non ero il solo a mostrarmi interessato a conoscere cosa accadeva in quelle stanze: per tre giorni, dalle 10 alle 15, ad ogni mezz’ora, 25 persone venivano guidate attraverso quegli ambienti. Le visite sono organizzate dall'Associazione "I luoghi dell'abbandono" e gestite con l'aiuto di "Inclusione Graffio e Parola di Volterra", una Onlus che rivolge i proventi al recupero culturale dell'ex manicomio.
ValeV
17/01/2018Mia madre mi ha sempre raccontato come la nostra zia finì in manicomio a 27 anni e di come urlasse "Io non sono matta". Dopo ripetuti dissidi famigliari il medico di famiglia la dichiarò "isterica" e venne collocata nella struttura psichiatrica di Colorno. È poi morta quando ero piccola senza averla conosciuta. Tristezza assoluta