Oggi è il 2 gennaio del nuovo anno e Maria Bernabò, classe 1919, compie 102 anni: "Auguri".
La signora è seduta in poltrona, spegne il televisore e ci fa accomodare. Ad accompagnarmi c’è il suo pronipote Marco: "Volete un caffè?". Le spiego il motivo della mia visita e lei, con voce ferma e in un dialetto bedoniese antico, quello con la "e" cantilenante e strascicata, che oggi in paese si fatica a sentire, mi dice: "Beh a mee stória a sarà in pô lónga da cuntê".
Ho voluto incontrarla (con tutte le precauzioni che il momento suggerisce) perché ho pensato che qualcosa di bello ed emozionante da ascoltare ci sarà senz’altro, in un secolo sono cambiate tante cose e lei è una delle poche fortunate "testimoni del nostro tempo", considerando anche da Bedonia non si è mai mossa, vivendola tutta e per tutto.
Prima di iniziare la nostra chiacchierata le spiego chi sono, e da lì intuisco immediatamente che la memoria c’è tutta ed è anche intatta, di ferro, come si dice: "Mi ricordo di tua mamma, eravamo sedute vicine a un matrimonio, ci siamo fatte compagnia… Ehh ma tu non eri ancora nato!".
La scatola di latta della "Dufour" è già aperta sul tavolo e mi riempie gli occhi. È ricolma di fotografie in bianco e nero, tutti frammenti di vite che, in gran parte, non ci sono più. Come al solito c'è dentro un po' di tutto: adulti tutti ben vestiti, bambini in calzoncini corti con i piedi sui pedali del triciclo e scene di matrimoni, oltre a molti famigliari in divisa grigioverde, i quali spedivano queste cartoline militari per far sapere a casa che stava andando tutto bene, anzi che erano vivi. Tra queste c'è anche una fotografia con una persona sorridente in posa davanti a un'automobile: "Qui eravamo negli anni '20 e a Bedonia c'erano solo tre macchine: una era di Capitelli che abitava nella villa di via Roma e poi c'erano due taxi, di cui uno era quello guidato dell'Emilia Federici".
Inizio a passare le immagini una ad una e, come spesso accade, sul retro non c’è indicato nulla, né nomi né luoghi e neppure anni. Provo a mostragliene alcune per saperne di più, e la sua memoria, neanche a dirlo, la fa da padrona, come ad esempio per la fotografia in copertina: "La bambina sono io, eravamo nel 1922, avevo circa tre anni; queste due ragazze al centro sono le sorelle Bianchedi, figlie di un medico che praticava a Bedonia, mentre queste ai lati sono le sorelle Serpagli, Adelaide e Giuseppina. Eravamo al CIF, noi abitavamo lì, nella casa giù in fondo al viale, i miei genitori sono stati i mezzadri, Solo una delle ragazze, questa qui, la Giuseppina, che noi chiamavano 'la sciura Peppina', era la proprietaria del podere, quindi la nostra padrona di casa. Lei aveva ereditato la proprietà dal papà Francesco, farmacista, con la stessa misura dei suoi fratelli maschi: lei non era sposata e quindi le è toccato un po' di più... I érena bèn sciuri!".
Davvero una testimonianza diretta sul Serpaglio con ancora la sua storica e distinta famiglia, addirittura prima di quel lontano 1929, anno in cui passò al patrimonio dell'Asilo Infantile. Una circostanza oggi più che rara, anzi unica!
Mi aspettavo che mi parlasse anche un po' di questa pandemia che c'è in atto, dei timori che ne conseguono, ma nulla. Ero anche pronto ad ascoltare i racconti inerenti la guerra, anche in questo caso niente, intenzionalmente sorvola l’argomento: niente anni di violenze, distruzioni e disgrazie, così come niente freddo, malattie e fame. Capisco però che tutto ciò l’ha conosciuto, che non l’ha dimenticato e il “segno” ce l'ha infilzato ancora dentro. Mi dice tuttavia che in casa sua stazionarono tre tedeschi per un mese… il tre me lo sottolinea con le dita. Poi cambia discorso.
Ci tiene invece a parlare del suo lavoro, in fondo ha fatto la sarta per gran parte della sua esistenza: per 64 anni consecutivi. Finita la quinta elementare, andò ad imparare un mestiere, anzi a “tagliare” la stoffa, dalle sorelle Leoni, figlie di un capomastro proveniente dalla pianura: "Celestìn era della “bassa” ed era venuto a Bedonia a lavorare con la sua impresa. Insieme alle figlie ci rimasi sette anni".
Dopodiché, Maria, ormai ventenne, decise di mettersi in proprio. Le sorelle Serpagli le regalarono anche la loro macchina da cucire, e lei contestualmente si iscrisse alla "Scuola di taglio" a Borgotaro: "Per essere più affidabile e soprattutto 'moderna': la concorrenza a Bedonia non mancava, c'erano decine di sarti!". Erano però gli anni in cui il lavoro non mancava, e così, dopo qualche anno, assunse anche tre giovani ragazze: Bruna, Lidia e Gina Soracchi: "Loro mi davano una mano a cucire e imbastire, mi facevano guadagnare tempo, io ero troppo lunga, ma volevo essere precisa; per fare un vestito fatto bene mi serviva tutta la settimana". Ricorda anche il primo abito completo che fece: "Ero così giovane e tanta la soddisfazione di fare un vestito tutto mio... era per la Maria Berni "du Braccu".
Quando la "mano" diventò sicura e capace, si specializzò a confezionare abiti da sposa, e ricorda anche il primo che le venne commissionato: "Eravamo nel '55 e lo indossò la Dina 'de Treisette', abitava Sopra San Marco". Sottolinea che per i cartamodelli più alla moda doveva rifornirsi a Parma, così come per la stoffa più pregiata. Dopo il buon successo del primo arrivò il secondo abito, questa volta per il matrimonio di sua nipote Carla (Bernabò): "Andammo a Parma per scegliere il modello e il tessuto. Con noi c'era anche Guido (Sghia), il futuro marito... Dopo un paio di giri in centro, iniziò a dire che era già mezzogiorno e dovevamo trovare un posto per mangiare. Róbe da òmmi!". Coglie l'occasione per ribadirmi che ricorda, oltre al primo, anche l'ultimo capo che ha cucito, nel 1996: "Era un capotto per la Franca Capitelli, l'ho tagliato per terra per non rovinare il tavolo nuovo. Pensa, le avevo fatto anche quello da sposa".
Poi va a suo fratello Giuseppe e mi racconta le vicissitudini legate alla sua decisione di partire per "l'America". Eravamo nel 1926 e aveva soli 23 anni. "Peppino", lavorava da "U Gidiu", la falegnameria di Rossi in via Roma. I calli sulle mani dimostravano che ne aveva abbastanza e, nel contempo, il desiderio di cambiare vita prendeva sempre più vigore: "Nei giorni precedenti la partenza teneva le mani a bagno nella varecchina per toglierli meglio, e dimostrare alle autorità americane che lui era andato lì per fare il 'commesso' e non per fare semplice manovalanza". Non gli credettero, e rimase a Ellis Island in attesa di accertamenti. Trovò poi il modo di contattare suo cugino Severino Franchi che si trovava già a New York, e questi lo "riscattò" pagando un'imposta alle autorità americane. Il permesso concesso aveva però validità di sei mesi: visse quindi da clandestino per diversi anni, cambiandosi persino nome, e solo in seguito divenne cittadino americano. A Bedonia tornò solo due volte, nel 1949 e nel 1981.
Si è fatto veramente tardi, non vogliamo approfittare oltre della sua disponibilità. Lei ribadisce di non preoccuparsi, e che questa chiacchierata è stata un vero piacere: "Con tutti sti racconti questa notte sognerò ancora... Pensa che ieri mi sono sognata Gianni Moglia "Scarpa" che era venuto a trovarmi per portarmi dei documenti da firmare per conto della mia nipote americana Jean".
Valentina
02/01/2021Tantissimi auguri di buon compleanno alla signora Maria. È sempre emozionante poter ascoltare questi racconti di persone che hanno vissuto in un'altra epoca. Ho avuto il piacere di indossare l’abito da sposa cucito per Franca dalla signora Maria in occasione della sfilata degli abiti da sposa prima edizione. Che meraviglia quell’abito, quei tessuti che adesso non esistono più.