Nocivegliesi: un'etnia un po' speciale
Nociveglia: la storia di un piccolo borgo che ha sfornato medici, farmacisti, avvocati, agronomi, letterati, geologi, economisti, fumettisti, editori e altro ancora
Non vi è traccia di nobiltà alcuna tra le sue genti. Il paese ha una chiesa e l’Arcangelo Michele ne è il patrono. Natale Bruni (1856-1926), nativo di Nociveglia, fu eletto da Leone XIII ad arcivescovo di Modena nel 1900. Il paese ha avuto 12 caduti nella prima guerra mondiale e fu sede di un distaccamento di partigiani durante la seconda. I tedeschi visitarono il paese varie volte e minacciarono di deportazione i suoi uomini. A poca distanza, negli stessi momenti, le SS avevano dato fuoco a Strela e ne avevano fucilato 17 abitanti. Dopo la guerra, il paese cominciò a spopolarsi sino a divenire quello che è oggi: una frazione semiabbandonata e quasi deserta. Molti mezzadri scesero in pianura a cercare fortuna e divennero padroni.
Pur con queste modeste credenziali, mi chiedo come mai, per me e tanti altri, Nociveglia emani un fascino quasi magico che si traduce in orgoglio di appartenenza. Non siamo certo nobili e il paese non appartiene alla categoria dei “bei borghi d’Italia", eppure qualcosa ci deve essere se, nel mio caso, l’appartenenza a Nociveglia ha così condizionato il percorso della mia vita.
La mia famiglia paterna viene da Nociveglia e, anche se non vi sono nato, sento che qui ho le mie radici profonde oltre alla casa lasciatami da mio padre. Vi ho sempre passato le vacanze estive quando ero bambino e poi studente. Anche dopo, avendo un lavoro che mi consentiva molta libertà, ogni volta che ho potuto vi ho passato il mio tempo. Ma il momento fondamentale fu nel 1942. La mia famiglia viveva allora a Milano dove lavorava mio padre e così ci prendemmo due terribili bombardamenti aerei. Ricordo ancora sirene, esplosioni e incendi e un mucchio di morti, all’uscita di un cinema (il vecchio cinema Cielo), che mio padre non riuscì ad evitare che vedessi anch’io. Mio padre decise subito di andare via da quell’inferno e da “sfollati” finimmo diritti a Nociveglia. Fu un cambiamento radicale: i soldi che ci portavamo dietro finirono in fretta, l’automobile (una “Balilla”) finì sotto un portico e ci comprammo una mucca (si chiamava Grisa) per avere almeno un po’ di latte. Assieme a qualche amico, mio padre (che era laureato in chimica industriale) mise su una piccola conceria e mia madre barattò gran parte del suo ricco corredo da sposa con farine per pane e polenta. Imparammo ad allevare galline e conigli e a convivere piacevolmente con gatti e cani in casa. Io e mia sorella Alba portavamo la mucca al pascolo sul Pelpi, una settimana ciascuno.
A parte le difficoltà economiche e i pericoli bellici, che vennero poi con partigiani e tedeschi, il periodo 1942-1945 è stato il più bello e formativo della mia vita.
Ho imparato a fare il pastore, a conoscere la montagna, i boschi, le sorgenti e i sentieri, a conoscere le piante, i funghi e gli animali e ho soprattutto imparato il dialetto praticandolo con i miei coetanei pastori e compagni di giochi. Purtroppo imparai anche a fumare, vizio che mi sono portato dietro tutta la vita. Io da bambino sapevo suonare bene la fisarmonica (a orecchio) e i partigiani, nel loro distaccamento di Nociveglia, mi chiedevano spesso di andarli a rallegrare con due suonate. Come compenso mi facevano sparare con lo sten (roba da matti solo a pensarci), mi facevano vedere i bazooka e poi cominciarono a darmi delle stecche di Chesterfield che ricevevano, assieme alle armi, dai lanci notturni di un aereo alleato. Così, a dieci o undici anni, cominciai a fumare sigarette di lusso americane di nascosto da mio padre, mentre lui “torciava” foglie di tabacco o fumava “sghinsergne”. Venni anche a sapere che durante i rastrellamenti tedeschi parte delle armi dei partigiani venivano nascoste nella fossa comune del cimitero. Qualcosa rubammo io e i miei amici e fu poi consegnato ai Carabinieri da mia madre nell’immediato dopoguerra. Qualcosa deve forse essere ancora là sotto. Mi fu detto anni fa dai Carabinieri di dimenticare il tutto. Esperienze uniche e indimenticabili per un ragazzino.
Oltre al dialetto e a fare il pastore imparai anche tante altre cose per merito di mia madre e mio padre. Non potendo andare a una scuola pubblica, mia madre, che era maestra, mi fece finire le elementari (mio compagno di studi fu Claudio Mutti) e mio padre si improvvisò professore e mi permise di fare così, sempre a casa, i primi due anni delle medie avendo come compagna di classe Nives Mutti (che poi si laureò in lettere antiche). Entrai così in contatto con gli antichi greci e romani e mi innamorai del loro mondo e dei loro eroi.
Un ricordo che mi porto dietro della Nociveglia di allora è quello che, nonostante le liti che spesso affliggevano i suoi abitanti per confini, diritti di passaggio, animali domestici e così via, vigeva una totale collaborazione quando si fosse trattato di bisogno, come ad esempio per malattie o per le splendide trebbiature (c’erano famiglie, come i Canonici, che trebbiavano anche più di 100 sacchi di frumento!). In questi casi il paese agiva come una vera comunità. E, passato il bisogno, si ricominciava con le solite liti. Nociveglia era un tipico paese di agricoltori, con padroni e mezzadri, e con una vita sociale riassunta da un convegno serale di vecchi che scambiavano due parole tra loro, spesso sotto il portico della casa dei Bacù. C’era di fondo un’atmosfera di austera povertà e di grande rispetto per gli anziani. E soprattutto, tra noi bambini, c’era un’uguaglianza assoluta: né mezzadri, né padroni.
I ricchi comunque c’erano, anche se un po’ mascherati. E da dove veniva questa ricchezza? Certamente non poteva venire da Nociveglia, dalle sue terre e dalle sue vacche. Veniva dai “siti” in pianura e da attività commerciali sviluppate nel nord Italia. Così si favoleggiava sui poderi di Pajà o sui negozi dei Zin. In realtà, Nociveglia era anche un paese di emigranti che avevano cercato fortuna altrove. Mio nonno Domenico “u Biggu”, se ne andò in Brasile assieme ai suoi fratelli a metà del 1800, vi lavorò per 20 anni vendendo merci ai contadini del Mato Grosso che là trasportava con carovane, forse di schiavi, dal porto di Salvador (Bahia). Erano viaggi nell’interno di un Brasile ancora semiselvaggio che duravano mesi. Mio nonno ritornò a Nociveglia 20 anni dopo assieme ad alcun fratelli; altri rimasero in Brasile. Tutti fecero fortuna. Quella di mio nonno si ridusse di molto per il fallimento della banca dove aveva depositato gran parte dei suoi risparmi. Uno dei fratelli tornati fece studiare il figlio Amerigo e gli comprò una farmacia a Fiorenzuola d’Arda. Mio nonno Domenico fece studiare mio padre Ido che ottenne, a Bologna, la prima laurea in Italia in Chimica Industriale.
Credo sia stato questo il punto di svolta di Nociveglia, con l’inizio del passaggio da una comunità di contadini semianalfabeti a una che nel tempo si evolve verso il mondo dello studio e delle professioni: il prezzo pagato è stato lo spopolamento progressivo. Mi chiedo se ne è valsa la pena e l’unico modo per saperlo è quello di vedere cosa hanno fatto i Nocivegliesi nel dopo. Bene, in tre-quattro generazioni Nociveglia ha sfornato medici, farmacisti, avvocati, agronomi, letterati, geologi, economisti, fumettisti, editori e altro ancora. Credo che meglio non si potesse fare e che le eccellenze siano molte. Voglio qui cominciare con il ricordare Dorio Mutti (1936-1998), riconosciuto esperto internazionale in comunicazione e strategie industriali, per chiudere con Cecilia Mutti oggi titolare della piccola ma già prestigiosa Nuova Berti Editrice di Parma. Ma fatto unico, per una comunità così piccola, è che Nociveglia ha ben tre professori ordinari universitari e tutti di alto prestigio internazionale: due sono in pensione (Antonio Mutti, Medicina, e Emiliano Mutti, Geologia), uno è in attività all’Università di Potsdam, Germania (Maria Mutti, Geologia). A questi si deve aggiungere Attilio Del Re (nipote di Amerigo Mutti, padre di Jolanda, sua madre, andata sposa al piacentino Dott. Sandro Del Re), già professore ordinario di Biochimica all’Università Cattolica di Piacenza, ora in pensione. Attilio Del Re è anche Maestro d’organo e un noto studioso di cucina antica e di alimentazione. Per essere partiti da un mondo semianalfabeta che viveva in una piccola comunità agricola, il bilancio sembra dunque ampiamente positivo.
E’ chiaro che mantenere un legame tra la vecchia Nociveglia e questo nuovo mondo che si è venuto a creare è e sarà sempre più difficile. Le ultime generazioni sono ormai quasi cosmopolite: molti lavorano o stanno studiando sparsi per l’Europa, la Gran Bretagna e l’America. Quasi nessuno parla più il dialetto, cemento forse necessario per mantenere le tradizioni. Il problema dei legami generazionali se lo pongono anche i più giovani che hanno creato un piccolo gruppo (“Nociveglia”) su Facebook dove molti partecipano attivamente. Mi ci sono messo anch’io, spinto da mio figlio Luigi, pur se avevo sempre detestato i social: scopro che, se usati con giudizio, possono essere utili. Così attraverso Facebook qualcosa delle vecchie tradizioni rimane e i più giovani scoprono quello che facevano i vecchi.
Appartenere a Nociveglia lo ritengo un privilegio e, al riguardo, mi ha fatto un grande piacere il venire a sapere che in tutta probabilità anche i famosi Mutti dei pomodori hanno origine da questo stesso paese. Prima del Covid mi vennero a trovare a Nociveglia Marcello e Angelita Mutti, genitori di Francesco, attuale CEO della Mutti SpA. Nella lettera che Marcello Mutti mi scrisse per ringraziarmi dell’ospitalità, l’inizio diceva: ”Carissimi, lontani parenti Nocivegliani”. Sic!
Io, alla fine del mio percorso, non riesco a dimenticare il mio paese, la mia casa, i miei vecchi amici, ormai quasi tutti scomparsi, e soprattutto quei tre anni di guerra che mi hanno segnato per sempre. Per questo rifiutai da giovane un lavoro permanente negli USA e di diventare poi americano e, più tardi, di accettare la cattedra di Geologia all’Università di Ginevra e di diventare alla lunga svizzero. Sono finito all’Università di Parma, dove ho insegnato per quasi trent’anni, a poco più di un’ora di macchina da Nociveglia. Ho girato il mondo e mi sento un po’ cosmopolita, sono convintamente europeo e anche orgoglioso di essere italiano, ma di fondo rimango uno dell’ alta Val Ceno: il mio habitat naturale.
Forse Nociveglia e l’alta Val Ceno meriterebbero un po’ più d’attenzione e rispetto da parte del Comune di Bedonia al quale appartengono amministrativamente: in realtà noi non siamo né bardigiani, né bedoniesi. Se si vuole mantenere traccia per qualche generazione ancora di questa “etnìa” un po’ speciale ci vorranno scelte coraggiose, consapevoli e possibilmente condivise.
Valceno Racconti Fotografia Persone Guerra Religione Ricordi/Storia Tradizioni Bedonia Ospiti del blog Piacenza
Bell'articolo e molto interessante, spesso ci etichettavano con "voi dei monti" ma le alte valli emiliane hanno prodotto tanta gente come questa che è stata raccontata, bisogna essere orgogliosi di questo
E' una bella storia quella attinente all’ultimo secolo della piccola Nociveglia, perla rurale incastonata tra le valli del Taro e del Ceno. Da quando ha preso la parola su questo blog è un piacere leggerlo, Milanetti non delude mai. Lo conferma lo stile chiaro e scorrevole della narrazione, la ricerca storica e la sua evoluzione, l’uso di termini correnti e dei lemmi tradizionali, compreso l'utilizzo della macchina fotografica. Siamo tutti consapevoli che sono ben altre le problematiche concernenti ai piccoli paesi appenninici, dallo spopolamento all’abbandono delle case, realtà oggettive con cui la politica si riempie spesso la bocca ma senza mai prendere una posizione risolutiva, confutando così il disinteresse collettivo.
Grazie Dr. Mutti per questo bel racconto su Nociveglia, luogo di personaggi singolari e che pure io -da sempre- trovo particolarmente bello, sia per le visuali su cui si apre, sia per i tanti alberi di noci che circondano il paese e che lo rendono appunto diverso da altri paesini delle nostre valli.
Da globetrotter qual sono pure io, capisco e condivido la nostalgia e l'affetto che prova per le sue radici. Tante cose son cambiate nel tempo anche a Nociveglia e, purtroppo, mi lasci dire, non sempre in meglio (la scorsa estate, in fondo al paese, ho visto un prato meraviglioso che veniva ricoperto, in modo irrecuperabile, con detriti edili di varie natura). Una vera assurdità, considerando la bellezza dei luoghi. Ma questo, purtroppo, è un tragico segno dei tempi che viviamo. La saluto cordialmente e grazie ancora per aver condiviso i suoi ricordi.
PS: Fra l'altro, il Prof. Sandro Del Re, che Lei cita nel suo racconto, è stato mio professore di Chimica Vegetale alla Università di Scienze Agrarie di Piacenza.
"ORGOGLIO DI APPARTENZA" a questo paese è quello che sento anche se non vi ho mai vissuto...sentimento probabilmente trasmessomi in modo inconscio da mio padre. Grazie per averci trasmesso questo pezzo di storia del paese.